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L’archeologia ha innumerevoli facce ed è in continuo cambiamento, si presenta in modo sempre diverso agli occhi di chi se ne interessa, sia un semplice turista che visita un’area archeologica o uno studente nel pieno del suo percorso universitario; io rientro nella seconda categoria.

Dopo due anni passati a immaginare uno scavo archeologico eccomi catapultato in un mondo profondamente diverso. Nulla avrebbe mai potuto restituire l’atmosfera e le emozioni che provoca una prima esperienza come questa, né le istruzioni tecniche né la prosa filosofeggiante di uno dei più grandi archeologi italiani, Andrea Carandini.

Avevano provato ad avvisarmi i professori: “Ciò che viene descritto nei libri non è altro che una rappresentazione semplificata di quello che troverete là fuori!”. Una verità ovvia, ma che è emersa solo quando mi sono trovato faccia a faccia con un vero scavo, solo quando ho tirato il primo colpo di piccone, smosso la terra. Quello che ne è venuto fuori non era uno dei tanti schemini descrittivi disegnati dal prof sulla lavagna o letti tra le pagine delle decine di libri letti sull’argomento, ma uno strano ammasso di terra e detriti provenienti da chi sa dove o da chi sa quando. I libri di metodologia archeologica sembrano, su uno scavo, come il libretto di istruzioni di un mobile IKEA, semplici a leggersi e da capire, ma montare il mobile è tutta un’altra cosa.

L’ho capito sin da quando, il secondo giorno, mi hanno mostrato quella che per una settimana è stata la mia seconda casa, le terme della villa romana. Queste si trovano vicino alla stanza del mosaico e sono fortemente intaccate dagli aratri. Il pavimento delle terme è inclinato, fratturato e in certi punti completamente divelto. Gli aratri hanno dipinto una situazione diversa da quelle riportate sui libri. Persino le suspensurae (le colonnine di mattoni che rialzavano il pavimento e permettevano il passaggio di aria calda prodotta da un forno) si trovano in luoghi inaspettati: nei disegni sono raffigurate sempre insieme al pavimento, io invece me le sono ritrovate rialzate o a livelli molto più bassi. Inutile dire che mai su un libro mi era capitato di vedere una scena del genere; quell’ordine ideale e gli strati ben distinti descritti da Carandini si confondevano sotto i miei occhi. Così come ci vuole esperienza per maneggiare pale e picconi, ci vuole pratica per riconoscere e distinguere i diversi elementi in uno scavo di difficile lettura come Vignale.

I libri non ti parlano della fatica, del sudore e della miriade di dolori post-scavo o della grande soddisfazione che si prova nello spalare come talpe dalla mattina alla sera; non parlano neanche della sensazione di spaesamento e di quello strano senso di responsabilità che ti assale nel dover fare i conti con qualcosa che rompe la barriera di 20 secoli che solitamente si interpone tra uno studente e ciò che è scritto sul tomo di un’enciclopedia storica. Su uno scavo ci si trova davanti alla “storia”, quella con la “s” minuscola, fatta di “uomini e cose”, o meglio, ciò che rimane delle storie di quegli uomini e delle loro cose.

Nicola Lapacciana

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