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L’articolo de La Stampa di ieri ha suscitato una grande attenzione, almeno a giudicare dai contatti (quasi 4.500) e dalle condivisioni (quasi 100) registrati dal post su FB che ne dava notizia.

Mi pare una buona cosa, perché è dal dibattito e dal confronto delle opinioni anche profondamente differenti che nascono le idee. E credo che in questo momento abbiamo bisogno, più che di ricette facili da applicare indiscriminatamente, proprio di buone idee da perseguire nel tempo.

Vorrei quindi provare a sviluppare il mio ragionamento, a partire da una domanda: che cosa significa, in termini economici, bloccare – o quantomeno bloccare in larga misura – la ricerca in archeologia? Apparentemente si tratta solamente di un risparmio per le casse dello Stato o almeno di una garanzia verso un potenziale esborso di denaro pubblico per pagare gli ormai famigerati premi di rinvenimento.

Mi pare di poter dire che non è così. E che non è così da almeno tre punti di vista: macroeconomico, microeconomico e “medioeconomico”.

Dal punto di vista macroeconomico, bloccare o ridurre la ricerca di base in archeologia è una sciocchezza: in una dimensione economica che si va sempre più globalizzando e che, volenti o nolenti, punta sempre di più sulla competitività internazionale, disinvestire su un settore in cui siamo potenzialmente fortissimi, come quello dei BBCC, è prospettiva quanto meno miope. L’Italia non utilizza una parte rilevante della quota di finanziamenti UE ad essa riservati per mancanza di progettualità. E la progettualità si fa, nei BBCC, con la ricerca applicata che ha il suo fondamento inevitabile nella ricerca di base.

Blocchiamo la ricerca di base e bloccheremo in qualche anno la ricerca applicata e addio competitività in un settore che nel prossimo futuro rischia di essere uno delle pochissime carte da giocare nel mondo nuovo e globalizzato.

Dal punto di vista della micro-microeconomia. La discussione di questi giorni si è accesa intorno al caso di Vignale, che è un caso sì emblematico, ma che non è poi troppo differente da decine o centinaia di altri casi. Ogni volta che una ricerca archeologica si “fa” in un territorio, cambia necessariamente la microeconomia di quel territorio.

In buona sostanza, quando uno scavo si apre alla comunità che lo ospita – alle comunità locali, al sistema imprenditoriale, alle scuole – fa sostanzialmente una sola cosa: sposta i micro-consumi di quel territorio verso il consumo culturale.

Credo che questo sia esattamente quello di cui noi abbiamo bisogno in questo momento: reindirizzare il consumo interno verso prodotti che sono “intrinsecamente” nostri, come la nostra identità culturale, rispetto a prodotti magari di larghissimo consumo – il solito demonizzato telefonino di ultimissima generazione, tanto per capirci – e che sono invece prodotti tipicamente esterni, nel senso che non sono controllati economicamente da noi.

Bisogna dirlo con grande chiarezza: ogni euro speso sui beni culturali è un euro che mette in moto l’economia interna del nostro Paese. E ogni euro che spendiamo per mettere a contatto con i BBCC le giovani generazioni ha, sempre, un effetto volano: dalle visite agli scavi nascono curiosità che vengono soddisfatte dai libri. E una volta che abbiamo messo in contatto i giovani con i libri il gioco, il grande gioco, è davvero fatto.

Dal punto di vista della “mediaeconomia”. Nella discussione di questi giorni – ma anche di questi mesi/anni – sono coinvolti soggetti diversi: tutti archeologi, ma con prospettive necessariamente diverse. Archeologi delle Università, archeologi del MIBAC e archeologi della libera professione.

Dobbiamo dirci con grande chiarezza che l’archeologia dei giorni nostri, così come si è venuta configurando in tutto il mondo e in particolare nel nostro Paese – che ha il suo patrimonio, la sua storia e la sua politica – è un sistema complesso: un corpo unico con teste diverse.

Caratteristica di questo sistema è che si tiene – oggi obiettivamente con grande difficoltà – tutto insieme. Se collassa un pezzo di questo sistema è inevitabile che collassino definitivamente anche gli altri pezzi.

Nello specifico della discussione di questi giorni: se collassa il sistema di ricerca e di formazione dell’Università, non avremo più buoni archeologi da immettere sul mercato e non potremo più fare buon lavoro (che vuol dire essenzialmente “raccontare” buona archeologia).

Se collassa la ricerca, cade l’interesse e l’attenzione pubblica intorno all’archeologia. A tutta l’archeologia. Da questo punto di vista, la caduta di interesse della collettività verso l’archeologia non è un problema solo dell’università. E’ un problema di tutto il sistema archeologico, perché significa, per esempio, caduta di interesse e di attenzione verso il ruolo fondamentale del MIBAC nella tutela e nella gestione della nostra risorsa culturale. E significa anche caduta di interesse verso l’utilità, per esempio, dell’archeologia preventiva che è uno – non l’unico – dei possibili mercati del lavoro professionale in archeologia.

Un’ultima considerazione di scenario. Questo dibattito si svolge in un momento storico preciso, caratterizzato, come moltissime altre cose della nostra vita quotidiana, da una profonda crisi economica e di prospettive.

La portata della crisi è tale che non possiamo sperare di uscirne ricominciando a fare, magari con qualche correttivo minore, le cose che facevamo prima. Dobbiamo essere in grado di inventarci, letteralmente, un mondo nuovo. Un mondo in cui ridisegnare radicalmente le gerarchie di valori dopo un ventennio devastante.

Uscire dalla crisi non significa solo riportare in positivo il PIL, ridurre il debito pubblico e abbattere lo spread, ma significa anche riuscire a ridisegnare la nostra qualità della vita. E la ricerca sul nostro passato è uno strumento potentissimo per ridisegnare e riaffermare la nostra identità all’interno di un mondo globalizzato non solo dal punto di vista economico.

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One thought on “Perché penso che sia un pessimo affare economico bloccare la ricerca in archeologia.

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