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Con una comunicazione ufficiale arrivata stamattina, la Direzione Generale per i Beni Archeologici ha respinto la richiesta di concessione per lo scavo di Vignale, di fatto decretandone quindi la chiusura, a meno che una più meditata riflessione non porti a un ripensamento.

La motivazione tecnica, legalmente ineccepibile, è che non vengono rilasciate concessioni per scavi su terreni di privati, perché questi ultimi potrebbero richiedere il premio previsto dalla legge in caso di rinvenimenti di particolare valore.

Va da sé che questo non è il caso di Vignale: il sito è quello che è (cinquanta anni fa lo stesso Ministero lo aveva dichiarato formalmente distrutto dalle arature) e l’azienda proprietaria dei terreni ha, come sempre, generosamente messo a disposizione il campo a titolo del tutto gratuito e ha rinunciato preliminarmente a ogni eventuale richiesta di premio di rinvenimento. Nulla di tutto questo è stato ritenuto utile a fronte allo spettro di un possibile – e temutissimo da tutti i funzionari pubblici – “danno erariale”.

Dunque, dove non sono riusciti la crisi economica, le fatiche umane, i problemi personali anche gravissimi delle persone coinvolte in questa avventura, gli incendi, le zanzare e anche i vandali, sembra essere riuscito, almeno per il momento, il Ministero che per legge deve tutelare e valorizzare i Beni Culturali del nostro paese.

Ripeto, a scanso di equivoci: la decisione è del tutto legittima sotto il profilo delle norme, ma ciò non toglie che sia sbagliata, quanto meno sotto il profilo economico.

La valorizzazione dei BBCC, come dice la parola stessa, sta nel conferire un “valore” a delle cose che per loro natura non ne hanno intrinsecamente uno: nel caso di Vignale stiamo parlando di qualche muro semidistrutto dalle arature, alcuni poveri pavimenti in cocciopesto trasformati in montagne russe dalla subsidenza del terreno paludoso e di qualche cassetta di cocci mal presi (quelli belli, insieme a qualche migliaio di monete se li sono già portati via i clandestini in anni di ricerche relativamente indisturbate).

Il “valore” di quei beni sta dunque esclusivamente nelle storie che essi possono raccontare a chi è in grado di leggere e interpretare labili segni nascosti nel terreno arato e il nostro lavoro in questi anni è stato quello di restituire alla collettività questo valore sotto forma di narrazioni comprensibili ai diversi pubblici a cui ci siamo rivolti.

In ordine inverso di importanza, lasciatemelo ripetere, in ordine inverso di importanza: la “comunità scientifica”, cui abbiamo somministrato noiose relazioni di scavo e qualche intervento in convegni e seminari; la gente di Vignale, di Riotorto, di Populonia e di tutta la Val di Cornia, che ha frequentato assiduamente il nostro scavo; e, soprattutto, i bambini e i ragazzi che in questi anni hanno avuto modo di passare delle giornate con noi.
In questi dieci anni abbiamo forse scavato poco, ma in compenso abbiamo invece parlato molto. A tutti e in tutti i modi: con le parole, le immagini, le esperienze dirette, la rete, il cinema (ci è mancata la radio, ma arriverà anche quella…).

Insomma, in questi anni crediamo di avere prodotto quello che in termini economici si chiama “valore aggiunto”: dato un investimento collettivo, non irrilevante e potenzialmente a fondo perduto, abbiamo fatto in modo di farlo fruttare.

Già, perché l’investimento c’è stato ed è stato importante. Lo Stato, la stessa Amministrazione pubblica che ora ci impone – a termini di legge – di chiudere lo scavo, ha investito, tra il 2004 e il 2007, qualche decina di migliaia di euro.

Possiamo parlarne serenamente perché noi archeologi dell’Università di Siena di quel denaro non abbiamo gestito un solo euro: li hanno gestiti direttamente – e con assoluta competenza e rispetto di ogni regola e di ogni deontologia – i funzionari del MIBAC con cui abbiamo collaborato. Sono stati spesi per l’impianto del cantiere, la recinzione, la baracca, i primi lavori con i mezzi meccanici.

Poi lo Stato si è progressivamente ritirato dall’investimento e il suo posto è stato preso dalla comunità locale in quella forma che abbiamo raccontato decine di volte a tutti: la proprietà del campo, un paio di strutture ricettive, una grande azienda commerciale, gli enti locali hanno messo ciascuno a nostra disposizione servizi diversi che ci hanno consentito di andare avanti.

Noi, per parte nostra, ci abbiamo messo quello che avevamo: passione, abnegazione, voglia, intelligenza, disponibilità umana, perfino buonumore nonostante le zanzare.

Non so quantificare il valore complessivo di questo investimento: diciamo che se avessimo dovuto fare tutto quello che abbiamo fatto a prezzi di mercato (del lavoro, dei servizi, dei beni ecc.), saremmo nell’ordine di un centinaio di migliaia di euro.

Una montagna di “valore” che ha avuto come controvalore molte cose: conoscenza, formazione, consapevolezza diffusa del valore dei beni culturali come elemento identitario di un territorio, sviluppo di un rapporto “affettivo” tra bambini (e loro famiglie) e beni culturali.

E’ difficile dire se il gioco sia valso la candela e se il valore aggiunto sia stato proporzionale all’investimento fatto. Per noi certamente sì (lo prova tutto quello che ci abbiamo messo …), per la comunità locale certamente sì (anche qui lo prova la liberalità delle aziende e il lavoro volontario di moltissimi). Rimane da capire se il gioco abbia funzionato anche dal punto di vista del MIBAC.

Non so se questa valutazione sia stata fatta, ma mi permetto di sviluppare un po’ il ragionamento.

Lo Stato ha fin qui investito, in denaro sonante, qualche decina di migliaia di euro che sono andati tutti in quello che in termine tecnico si chiama “investimento iniziale”: sono soldi ormai irrimediabilmente spesi e si tratta solo di capire se hanno fruttato oppure no.

Se fermiamo adesso Vignale finisce che lo Stato ha fatto un investimento significativo i cui unici beneficiari alla fine siamo noi archeologi dell’università di Siena: sembra un paradosso, ma è così.

A questo punto della vicenda, i venti o trentamila euro spesi dallo Stato hanno consentito a EZ e alla sua équipe di fare uno scavo che non avrebbero mai potuto fare a spese loro e di trarne materiale con cui “campare”, scientificamente, per almeno un decennio.

Se Vignale si ferma qui, EZ & co. scriveranno uno o più libri bellissimi, molto apprezzati nella comunità scientifica nazionale e internazionale e potranno solo applaudire alla circostanza fortunata che li ha portati a poter usare un sacco di soldi pubblici per le loro, del tutto legittime ma personalissime, curiosità personali.

Ora finalmente potremo dire a tutto il mondo che il signore che bollava le sue tegole con la sigla MFVLVIANT non lavorava a Roma o – Dio ce ne scampi – nella valle del Tevere, ma, pensate un po’, proprio a Vignale.

Oppure verremo applauditi in una decina di convegni più o meno internazionali presentando la ragionevole supposizione che Rutilio Namaziano sia passato proprio da Vignale durante il suo viaggio di ritorno verso la Gallia.

Non c’è che dire, un grande affare per lo Stato.

Il vero affare per il suddetto Stato è mettere a frutto nel migliore dei modi l’investimento straordinario che lo Stato stesso, l’Università (che tra l’altro statale è…), il Comune di Piombino (che non è propriamente Stato, ma sempre denaro pubblico usa…), il sistema imprenditoriale locale e una quantità di gente comune hanno fatto.

Buttar via un centinaio di migliaia di euro già spesi per il rischio, del tutto teorico e concretamente pari a zero, di dover risarcire un proprietario che ha già detto in tutti i modi che quei soldi non li vorrà, non mi pare una mossa particolarmente felice.

Se il proprietario del terreno (che peraltro anche in mezzo a difficoltà personali enormi ha dimostrato con i fatti di tener fede alla parola data, proprio come un signore d’altri tempi) improvvisamente impazzisse e chiedesse un risarcimento, con ogni ragionevole probabilità si parlerebbe di un “danno erariale” di qualche decina/centinaia di euro.

Non sono un economista, ma mi piacerebbe molto sapere come gli economisti definiscono il danno che procura a se stesso uno che abbandona un investimento di centomila euro, proprio nel momento in cui i ricavi sono al loro massimo, per il rischio del tutto teorico di perderne duecento.

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8 thoughts on “Macro diseconomia dei Beni Culturali

  1. E’ una delle tante storie tristi (dalla terra in questo caso), che rivelano la mancanza di un’idea, di una visione, di una strategia nel mondo dei beni culturali. Storie di occasioni perdute, di abbandoni forzati, di lotte impari contro l’incuria, l’indifferenza, e contro regolamenti antiquati e anacronistici, assolutamente inadatti alla crescita culturale, civile ed economica di questo settore.

  2. Rabbia e sconcerto… e questo sarebbe il nostro Ministero per i Beni Culturali! Siamo un Paese in declino… dove non funziona più niente.

  3. “Tu quoque”, verrebbe da dire, ma purtroppo con un’espressione molto meno sorpresa e assai più disillusa di quella che dovette avere Cesare… Mi spiace, vi sono vicino.

  4. E’ purtroppo uno dei casi di ordinaria burocrazia di un paese ormai in decadenza , che ha paura della propria ombra e che non sa più neanche riconoscere il beneficio che può portare al sistema territorio un’iniziativa culturale. D’altra parte qualcuno ha detto che con la cultura non si mangia…. e lo ha detto in Italia!

  5. Purtroppo per “noi” le cose non cambiano… peggiorano!!! Spero vivamente che vi sia un ripensamento, vi sono vicino.

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