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Vecchi libri o ingiallite pagine di diario dalla calligrafia incerta ci fanno apparire la storia del nostro passato quanto di più lontano ci possa essere dalla vita quotidiana. Eppure quelle parole ci narrano di persone non molto diverse da noi.

Ne è un esempio la storia di Vignale, che sembra non finire mai e che intreccia vite su vite: quelle dell’antica Roma, quando nacquero i primi nuclei della villa, quelle dei primi decenni del 1800, quando l’area fu interessata da un’operazione di bonifica, fino ad arrivare al nostro scavo. Così noi studenti e studentesse, dottorandi e professori ricalchiamo le orme degli operai del Granduca Leopoldo II di Toscana: come loro soffriamo il caldo dell’estate e il fastidio delle zanzare, come loro fatichiamo sotto il sole e cerchiamo di risollevarci il morale alternando un colpo di piccone a una canzone.

E non dissimile da noi era anche Leopoldo, il giovane granduca che inciampò nelle rovine romane di Vignale e ne rimase folgorato. È impossibile raccontare tutto questo attraverso la pagina fredda di un libro.

E allora come fare? Il mezzo più efficace è il teatro, con cui si abbattono le barriere tra narratore e spettatore e la storia non si studia, ma si vive.

Così, lo scorso 29 settembre, abbiamo trasformato il nostro scavo in un vivace palcoscenico. Grazie all’aiuto dell’associazione Cultura e Spettacolo Riotorto, all’associazione Squadra a Cinghiale “La Setola” e la sezione soci coop di Riotorto, abbiamo organizzato l’evento “Ancora una notte a Vignale – Il Mosaico del Granduca”. Nella prima parte della serata, noi archeologi ci siamo calati in prima persona nella storia raccontando la storia della scoperta del mosaico del Signore del Tempo. A seguire, il pubblico si è spostato alla Tenuta di Vignale per una cena a base di cinghiale.

La locandina dell’evento

Presente e passato si sono intrecciati sotto gli occhi degli spettatori quando il granduca Leopoldo, il conte Lelio Franceschi e l’ingegnere idraulico Alessandro Manetti hanno dialogato in tre scene ambientate tra 1831 e 1835 per rispondere alle domande di noi archeologi. I tre protagonisti non sono rimasti figure astratte e perse nel passato, ma hanno assunto l’aspetto e la voce di alcuni di noi. È stato divertente vedere i miei compagni di lavoro sostituire le bandane con colorati fazzoletti da taschino e mettere da parte la trowel per impugnare eleganti bastoni. Ancora più bello è stato aver dato voce a chi non è riuscito a mettere la propria firma sotto un capitolo di storia: infatti abbiamo riportato in vita i tanti operai di Leopoldo, provenienti da ogni zona d’Italia, e le loro amate che li attendevano a casa, cantando, come probabilmente fecero loro, la nota canzone popolare Maremma Amara.

E mentre alcuni di noi si muovevano alla luce delle lanterne e delle candele per raccontarci il passato, il mio compito era invece quello di restare agganciata al presente. Quella sera ho interpretato me stessa e ho recitato un copione che ho vissuto anche nella realtà: da giovane archeologa al primo scavo ho tempestato Elisabetta, l’archeologa esperta, di una pioggia di domande come d’altronde faccio nella vita di tutti i giorni.

Avevo sentito tante volte prima le risposte alle domande che ho posto, eppure quella sera tutto mi è sembrato più chiaro: Leopoldo non era più un nome su una pagina ingiallita, ma il volto ben noto di un amico.

Laura Colli

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